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domenica 28 settembre 2014

I Promessi Sposi 2 capitolo


                                         I PROMESSI SPOSI
                                                  Capitolo 2

Il secondo capitolo si apre con un tratto tipico della letteratura Manzoniana: l'ironia.
Don Abbondio deve trovare una scappatoia per non celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia; passa così una nottata angosciante e alla fine decide che la miglior cosa da fare è di “tener buono” per un po' Renzo. Nel 600, durante il periodo che andava dal 12 novembre all'Epifania, non si potevano celebrare matrimoni; mancavano, infatti, pochi giorni al 12 Novembre e il curato pensò bene che, tenendo a bada Renzo, avrebbe avuto due mesi di tempo per trovare una soluzione.
Notiamo la capacità di Manzoni di saper osservare la natura umana; sembra quasi che l'autore mostri un sorriso bonario al personaggio di Don Abbondio che si trova in questa difficile e imbarazzante situazione.
Il giorno seguente Don Abbondio aspetta con ansia e timore l'arrivo di Renzo. Quest'ultimo è un giovanotto intraprendente, semplice, molto intelligente e, infatti, si accorge subito, dalla faccia del curato, che c'è qualcosa che non va. Don Abbondio nei confronti di Renzo si sente in una situazione di predominanza, infatti, come se niente sapesse e come se tutto non fosse già stato organizzato, domanda a Renzo il giorno nel quale dovessero essere celebrate le nozze (rigo 58).
(Rigo 68) Il messaggio arriva a Renzo, ma anche a noi lettori: Renzo pensa che gli impicci siano dovuti a problemi burocratici, mentre noi lettori sappiamo che quegli “impicci” si riferiscono alla minaccia ricevuta dai bravi.
(Rigo 88 “impedimenti dirimenti”): gli impedimenti che non consentono di dirimere la situazione, quindi il matrimonio.
(Rigo 90-91) Don Abbondio adesso usa il latino contro Renzo.
Renzo a questo punto si altera e il curato decide di giocare di scaltrezza addossandosi la responsabilità di tutto e usando parole dolci.
(Rigo 99 “il grillo di maritarvi”): come se il matrimonio fosse un capriccio di Renzo.
A questo punto Renzo non comprende la situazione e chiede al curato cosa deve fare. Don Abbondio dice a Renzo di pazientare per quindici giorni.
Di fronte alla situazione Renzo si pone due domande:
    Cosa raccontare a Lucia?
    Come gestire i pettegolezzi in paese? (“i discorsi del mondo”)
Il curato gli dice di gettare tutte le colpe su di lui. Renzo, uscito, s'incammina verso casa di Lucia e, ripensando al colloquio con Don Abbondio, capisce che questo non era stato del tutto sincero con lui; in quel momento incontra Perpetua. (Rigo 160 “il mio povero Renzo”): è un indizio e lo è anche il fatto che Perpetua durante il dialogo menzioni “i segreti del mio padrone”. (Rigo 168): “povero” indica una condizione sociale di Renzo, non economica.
Perpetua pettegola mostra un tratto comico. Alla fine Perpetua riferisce solo che nella faccenda c'è di mezzo un Prepotente del luogo e non dice altro. Renzo senza farsi vedere dalla donna torna a casa di Don Abbondio e, senza tanto indugiare, chiede al    parroco il nome del Prepotente. Il curato, però, non vuole rispondere e Renzo, alterato, impugna il coltello che tiene in tasca minacciandolo. La volontà di Renzo non è quella di una minaccia di morte, bensì un'azione decisa per spaventarlo. Alla fine Don Abbondio cede e pronuncia il nome di Don Rodrigo. Il povero parroco si sente in credito nei confronti di Renzo e anche questo, che ha un cuore buono, si pente di aver usato un atteggiamento così minaccioso; infatti Renzo ammette di aver sbagliato (“Posso aver fallato”: frase celebre). Renzo, quindi, decide di andare da Lucia. Anche Lucia è una persona semplice, dall'intelligenza schietta; vive con la madre Agnese, amica di Perpetua e anch'ella chiacchierona. Lucia, per allontanare gli invitati in casa, dice loro che il matrimonio non si sarebbe celebrato in quanto il curato si era ammalato. Nel frattempo Don Abbondio si ammala veramente; gli invitati passando davanti a casa sua incontrano Perpetua che comunica la malattia del parroco.

venerdì 26 settembre 2014

LA PREPOSIZIONE O FUNZIONALE SUBORDINANTE


 PREPOSIZIONI PROPRIE

Le preposizioni proprie sono elementi che non hanno un significato proprio, però sono parti fondamentali della frase e servono a collegare due elementi di un periodo, per questo sono anche chiamate funzionali subordinanti. 
Le preposizioni proprie si dividono in semplici e complesse: quelle semplici sono DI, A, DA, IN, CON, SU, PER, TRA o FRA e sono invariabili; quelle complesse sono date dall’unione tra le preposizioni semplici DI, A, DA, IN, SU con gli articoli determinativi IL, LO, LA, L’, I, GLI, LE e assumono un genere (maschile o femminile) e un numero (singolare o plurale). Anche CON si può unire con IL e I creando COL e COI, e così anche PER potrebbe formare le forme dette sincopate PEL e PEI, che però ormai non sono più molto utilizzate. La preposizione SU inoltre è l’unica preposizione propria che ha anche valore di avverbio.

PREPOSIZIONI IMPROPRIE


Le preposizioni improprie possono essere avverbi (dietro,dentro, sopra, sotto,circa, conto, dopo ecc.), aggettivi (lungo, salvo, secondo ecc.) o verbi (sono per lo più participi come durante, mediante, rasente, stante, nonostante, escluso ecc.) che hanno un loro significato proprio e all’interno della frase servono ad appoggiare un altro elemento.

 

LOCUZIONI PREPOSITIVE


Le locuzioni prepositive sono espressioni formate da due o più elementi, ad esempio da un avverbio e da una preposizione propria (sopra a, dietro a, lontano da, vicino a ecc.), da un nome e un verbo preceduti e seguiti da una preposizione semplice (nel mezzo di, a fianco di, in base a, a causa di, in compagnia di ecc.) o da una locuzione avverbiale a cui si aggiunge una preposizione propria (di fronte a, al di là di, in quanto a ecc.), con cui formano un tuttuno e sono usate come preposizioni.

                                                                                                                                      Ilaria Bernardis

mercoledì 24 settembre 2014

Programma: I Promessi Sposi



Manzoni ci illustra cosa siano quasti bravi. Essi sono dei delinquenti comuni, dei gagliotti, che rischiando di essere arrestati si rifugiano sotto la protezione di qualche potente.
Le loro vite agiscono su due strade parallele: una in cui commettono reati per il loro signore (esempio minacce alla gente), l’altra dove compiono i loro reati. Hanno tutta la libertà che vogliono, basta solo obbedire e svolgere ciò che chiede il loro padrone. L’autore ci dice che è un fenomeno molto diffuso in quel tempo, perfino le grida (leggi), sono condizionate dai potenti.

I due bravi presenti all’inzio del racconto sono gli scagnozzi di Don Rodrigo, uomo molto potente in quel luogo. Uno dei due ha l’abilità della parola, con la quale riesce a incutere timore e a farsi beffe di Don Abbondio (dileggio), l’altro invece rappresenta un tipo, appartiene ai bassi margini della società e usa un linguaggio volgare.
Alla fine i due bravi riescono a imporre quello che vogliono sul povero curato, il quale risponde che sarà sempre disposto all’obbedienza verso Don Rodrigo.

Manzoni usa più volte nel racconto l’indugio narrativo, utilizzato per perdere tempo, intanto infatti il personaggio arriva fino alla sua destinazione.

Per Don Abbondio il suo pericolo più grande, in una problematica, è sempre quello più vicino al tempo. Quindi non pensa alle conseguenze, ma affronta il problema più vicino.

Nel testo si nota che il curato definisce il matrimonio come un pasticcio, inoltre ci mostra di leggere i fatti in una chiave utilitaristica. Egli dimostra di non saper cogliere i presupposti affettivi che stanno dietro a un matrimonio, nel momento in cui poi c’è un impiccio, lui ne vuole ricavare qualcosa. Inoltre sta sempre dalla parte del più forte, non difende mai i deboli, in contrapposizione dei suoi colleghi, che rimprovera. Tutto ciò è insolito.
Questa parte è un indizio, ci fa capire qualcosa su Don Abbondio.

L’espressione “non è un cuor di leone”, è una litote, è una metafora e una metonimia. Ci fa capire che il curato è un coniglio, un vile.
 

La perpetua del curato, chiamata proprio Perpetua, è una pettegola, una zitella, voluta da nessun uomo; comunque dà sempre il giusto consiglio, espandendosi però un po’ troppo.


Iacopo Bartoli